Le elezioni politiche del 25 settembre hanno segnato profondamente il panorama politico italiano, non solo per il trionfo di Giorgia Meloni, ma principalmente per il fatto che i cittadini hanno lasciato deserte le urne per oltre un terzo. Il 36% degli elettori si è astenuto, quindi ha preferito il disimpegno nel momento culminante della partecipazione politica.
Il legame tra abbandono dei territori da parte della politica e l'astensionismo
La crisi della democrazia e dei partiti ha radici socio-culturali profonde, che contribuiscono a spiegare fenomeni di flessione costante della partecipazione politica in Italia. La diffusa e crescente sfiducia nei confronti della classe politica comincia con la deflagrazione della “questione morale” tra la fine della Prima Repubblica, il ventennio berlusconiano e l’affermazione di sentimenti “anti-casta”. Gradualmente, i partiti sono stati percepiti non solo come inefficaci e inefficienti, ma anche come moralmente inadeguati al governo.
Questi elementi hanno trovato risposte per certi versi contraddittorie: nel tentativo estremo di moralizzarsi, i partiti hanno optato per ridurre i costi della politica, disinvestendo soprattutto nella rappresentanza dei territori.
Le vecchie sezioni territoriali, una volta spina dorsale del consenso ai partiti di massa del Novecento, sono state percepite dai soggetti politici come superflue e innecessarie, per cui, anche per effetto della l’eliminazione del voto di preferenza, sono gradualmente sparite dai territori con il “liquefarsi” dei comportamenti elettorali.
Alla rivendicazione della propria “personale” appartenenza partitica, si è sommata e rafforzata l’illusione di una comunicazione diretta con la leadership. Tutte queste variabili, a cui va aggiunta la recente riduzione del numero di parlamentari che ha comportato la riscrittura della geografia elettorale con collegi di dimensioni più ampie e dunque meno rappresentativi, hanno comportato la definitiva disarticolazione dei partiti rispetto ai territori.
A questo impasse che sembrava potesse essere superato dai nuovi movimenti politici. Questi ultimi, contrariamente alle formazioni politiche tradizionali, avevano trovato una strada vincente nella costruzione di un dialogo diretto tra partiti e cittadini. Basti pensare al Movimento 5 Stelle e all’esperienza, abbastanza fugace, dei Meet-Up territoriali. Un percorso che è culminato in un travolgente successo elettorale alle elezioni politiche del 2018, valso al Movimento la maggioranza relativa in Parlamento. A partire da questo risultato, i deputati e senatori pentastellati sono stati ai vertici del governo del Paese durante tutto il corso della scorsa legislatura, in ben tre esecutivi. Una posizione che garantisce influenza mediatica e politica e la gestione di fondi pubblici e dossier occupazionali, oltre che l’opportunità di rinsaldare i legami con i territori di appartenenza.
Eppure, quella che sembrava la brillante e fulminea scalata ai vertici delle istituzioni di una nuova classe politica si è mostrata per ciò che era: l’ascesa estemporanea di una classe dirigente che di “dirigente”, in realtà, ha dimostrato di avere ben poco.
Impegno Civico, un disastro elettorale annunciato
Non è un caso che proprio i deputati e i senatori del Movimento 5 Stelle, la forza politica che ha promosso la legge di revisione costituzionale che ha ridotto del 36,5% il numero dei parlamentari per contrastare “i privilegi della politica” e riavvicinare gli elettori alle istituzioni, si siano invece resi protagonisti di una delle débâcle più vistose della storia della Repubblica. Infatti, il comitato disposto tra legge elettorale, fattori storico-culturali e riduzione dei parlamentari ha finito per contravvenire definitivamente al principio di territorialità e prossimità della politica, con gli effetti distorsivi sopra descritti.
In seguito alla scissione guidata da Luigi Di Maio, infatti, un nutrito gruppo di parlamentari ex-5S è confluito nel gruppo parlamentare “Insieme per il Futuro”. Si tratta di 50 deputati e 11 senatori, tra cui alcuni volti storici del Movimento, 7 tra ministri e sottosegretari. Un capitale politico inestimabile per un soggetto politico che insieme a “Centro Democratico” avrebbe di lì a poco costituito la lista “Impegno Civico”, dal 6 agosto 2022 parte della coalizione di centro-sinistra. Queste premesse, avrebbero lasciato adito ad ambizioni elettorali ben superiori all’effettivo responso delle urne, attestatosi sullo 0,6%. La tessitura di una fitta rete di relazioni consequenziale alla presenza in maggioranza per oltre 4 anni, avrebbe dovuto favorire un’affermazione ben diversa sui territori, fissata dallo stesso Di Maio al di sopra della soglia di sbarramento 3%.
Invece, la sconfitta della neonata creatura di Luigi Di Maio è stata particolarmente cocente proprio in Campania, laddove i legami con il territorio sarebbero dovuti essere più saldi.
La sonora sconfitta può essere sicuramente interpretata come conseguenza della disaffezione degli storici elettori 5 stelle, che potrebbe aver voluto “punire” nelle urne buona parte del gruppo dirigente confluito nel partito di Di Maio.
Ma al di là dell’effetto “respingente” di singoli esponenti politici per l’elettorato, resta il fatto che una forza politica che vanta tra le sue fila esponenti ai vertici delle istituzioni, che provenivano da quegli stessi territori, abbiano saputo incassare suffragi elettorali così miseri. Molti di questi parlamentari, avevano alle spalle addirittura un doppio mandato. È la prova rigorosa di una classe politica “ancora più privilegiata”, che si è resa protagonista di una forma di sciacallaggio politico che ha morso sul risentimento degli elettori senza saperlo capitalizzare e senza tradurlo in consenso più solido attraverso l’attività parlamentare.
50 deputati , 11 senatori e 7 tra ministri e sottosegretari il 25 settembre sono stati candidati sui propri territori a condurre una campagna elettorale fatta di porte chiuse e sorrisi di disapprovazione. E un magro 0,6%.
Impegno civico, dunque, sarà ricordato come chi di casta ferisce di casta perisce.